Ultimo articolo dedicato a Guido Tarlati a cura di Giulia Procelli per il Baratto dei Saperi Smart! Buona lettura 🙂

L’occupazione di Città di Castello (1323) e le continue ingerenze nelle Marche da parte del vescovo-signore Guido Tarlati esasperarono papa Giovanni XXII: si trattava delle ennesime sfide che gli lanciava e che erano state precedute dagli interventi in Umbria e dai continui aiuti ai ghibellini di tutta la Toscana. Continuamente sfidato dal Tarlati, il pontefice gli inviò una bolla (12 aprile 1324) nella quale spiegava puntualmente come l’audacia e la temerarietà mostrata dall’aretino, ancora impunite, stessero crescendo in maniera preoccupante. All’interno poi venivano enunciati i sette gravi comportamenti tenuti da Guido nel corso degli anni, comportamenti che, durante il processo, diventeranno dei veri e propri capi d’accusa che spaziavano dall’essere stato un cattivo pastore, troppo impegnato ad impossessarsi del potere e dei castelli, sparsi nel contado togliendoli ai legittimi proprietari, a quella di essere divenuto il capo dei ghibellini, nemici della Chiesa, aiutandoli con favori e contingenti militari, oltreché di avere aiutato eretici e idolatri condannati come Federico da Montefeltro fino a fatti più gravi quali l’occupazione di Città di Castello, fedele al papa, e il tentativo di occupazione di Urbino con l’appoggio dei fuoriusciti urbinati e degli abitanti di Fermo e Fabriano, (febbraio del 1324). In questa ultima accusa viene chiamata in causa per la prima volta la questione ereticale secondo cui Guido, avendo favorito degli eretici, è considerato a tutti gli effetti loro complice. Si diceva poi che se il vescovo Guido, entro due mesi dal richiamo, non si fosse “pentito” abbandonando le sue mire su Arezzo e Città di Castello e non avesse cessato di aiutare gli altri ghibellini e se entro tre mesi non si fosse recato personalmente ad Avignone per discolparsi di fronte al pontefice, egli sarebbe stato scomunicato e condannato in contumacia.

Alla pubblicazione, seguì poi la pubblica lettura del documento nelle piazze o nelle maggiori chiese cittadine dove poteva raggiungere il maggior numero di persone sacralizzando la condanna agli occhi dei fedeli: era una parte importante dell’iter procedurale perché se l’accusato non ne fosse venuto a conoscenza avrebbe potuto obbiettare contro le accuse mossegli usando l’ignoranza come pretesto per rendere nullo il processo. Si trattava ancora di una bolla pontificia e non di un atto inquisitorio vero e proprio. A ben guardare era un ultimatum che minacciava il vescovo aretino di gravi ritorsioni come la scomunica che sarebbe diventata esecutiva di lì a tre mesi in caso di mancato adempimento dei “patti”. In teoria Guido poteva ancora pentirsi in extremis ma, nella pratica corrente, la minaccia di una scomunica equivaleva a una sentenza già emessa. Era proprio nella pubblicità, e non tanto nella condanna, che risiedeva la forza di questo strumento di lotta politica: la cosa più importante era creare un’opinione pubblica sfavorevole ai condannati che, nonostante tutto, difficilmente si piegavano e chiedevano scusa per le loro azioni. Il vescovo Tarlati non fu da meno.

Fu quindi scomunicato e, in quanto condannato in contumacia, la sua ribellione prefigurava già la successiva accusa di eresia che avrebbe portato al processo. Nel settembre del 1324 papa Giovanni XXII chiese di avviare un processo inquisitoriale nei confronti del prelato aretino. Ai testimoni fu presentata una lista di domande ripetitive che ruotava tutta attorno ai fatti di Spoleto di cui il Tarlati si era reso assoluto protagonista dal 1319 in poi e che prevedevano in genere una risposta affermativa lasciando loro poco margine d’espressione. Una volta emesso il verdetto di colpevolezza (18 luglio 1325), Guido venne riconosciuto come eretico e scomunicato decadendo automaticamente dal suo ruolo di vescovo e anche dall’ordine ecclesiastico. Adesso il pontefice aveva un ampio margine di manovra per intervenire contro di lui ma, non potendolo deporre dal suo ruolo di signore di Arezzo, decise allora di fargli terra bruciata intorno:
– annullò i trattati stipulati dal Tarlati con il comune di Cortona che ribadivano la piena sottomissione dei cortonesi alla diocesi aretina e in seguito scorporò Cortona dalla diocesi aretina rendendola una autonoma e guidata da Ranieri Ubertini, appartenente ad una famiglia ghibellina da sempre rivale dei Tarlati da Pietramala;
– 20 luglio 1325 nominò, al posto dell’ormai ex vescovo Guido, Boso Ubertini come nuovo amministratore della diocesi aretina ma sarà confermato vescovo soltanto il 5 dicembre 1326: si trattava di un membro della canonica e la sua nomina significava che la canonica o almeno parte di essa non era d’accordo con le scelte politiche attuate dal Tarlati e, nell’intento del papa, questo doveva creare una spaccatura all’interno del clero urbano;
– tolse a Guido la possibilità di assegnare delle rendite ai propri fedelissimi e mettendo al loro posto uomini di provata fedeltà guelfa;
– non ancora soddisfatto, papa Giovanni XXII inviò in Italia il cardinale Giovanni Orsini come legato pontificio per la Toscana, l’Italia centrale, la Sardegna e Roma con la missione di riportare la pace in questi territori e di rendere note a tutti gli abitanti le scomuniche emesse nei confronti degli eretici ribelli della Chiesa (vedi per esempio l’imperatore Ludovico il Bavaro e lo stesso Guido Tarlati).

La reazione dell’ex vescovo non si fece attendere: fece saccheggiare e incendiare le case urbane degli Ubertini e disfare il loro castello a Montozzi in Valdambra; condannò a morte come traditori ed esiliò a vita dalla città Boso, Ranieri e tutti i loro fratelli. Incurante di essere considerato un ribelle e un eretico, continuò a portare avanti la sua politica filo-ghibellina conquistando altri castelli in Valdambra e Valdichiana, sostenendo l’imperatore Ludovico il Bavaro e le forze ghibelline, aiutando i ghibellini marchigiani (ai quali aveva inviato delle truppe con a capo suo nipote Tarlatino in soccorso ai Montefeltro), lottando contro Firenze e appoggiando apertamente Castruccio Castracani e infine continuando a dare asilo e protezione ai ricercati dall’inquisizione. Per quanto riguarda la questione cortonese, non riconobbe mai la legittimità della diocesi cortonese né tanto meno quella dell’episcopato cortonese e non accettò mai di essere stato deposto dall’episcopato aretino. E se Ranieri Ubertini, grazie all’appoggio dei Casali (signori di Cortona), riuscì subito ad insediarsi, non si può dire altrettanto di Boso Ubertini che si trovò non solo impossibilitato a prendere materialmente possesso della cattedra aretina ma anche costretto a rifugiarsi nella vicina Firenze, non potendo risiedere ad Arezzo. Inoltre incoronò come re d’Italia a Milano Ludovico il Bavaro il 31 maggio 1327 ribadendo nuovamente la sua più totale adesione alla politica imperiale. Ciò indignò a tal punto il papa che rinnovò ancora una volta la scomunica nei confronti dell’imperatore e dei suoi sostenitori, tra cui Guido, e lanciò l’interdetto contro le città di Arezzo e Città di Castello. Ma niente sembrava frenare o fermare il Tarlati che continuava ad accompagnare Ludovico nel suo viaggio da Milano a Pisa dove l’imperatore aveva intenzione di fissare il campo prima dell’imminente attacco a Firenze nel mese di settembre.

Tra le fila dei fedelissimi ghibellini i rapporti erano sempre più tesi specialmente quelli tra Guido e Castruccio: lo screzio tra i due risaliva a quando i pisani avevano negato a Ludovico il Bavaro di entrare in città perché, nonostante fossero ghibellini, erano contrari alla politica di espansione nella Toscana occidentale ideata da Castruccio. Il vescovo aretino aveva allora tentato di fare da paciere chiedendo un incontro con gli ambasciatori delle maggiori famiglie ma il Castracani, che non voleva in nessun modo un accordo, li aveva fatti prigionieri. Nell’accampamento imperiale i due ebbero una accesa discussione durante la quale Castruccio aveva rinfacciato a Guido di non aver voluto la caduta di Firenze dopo la battaglia di Altopascio e l’imperatore in persona era intervenuto per dire la sua sostenendo le ragioni del pisano. Guido, deluso e amareggiato, allora decise di ritornare ad Arezzo e per aggirare i fiorentini andò verso il Monte Amiata. Pare che il vescovo fosse già malato da tempo tant’è che morì il 21 ottobre 1327 e pare che, in punto di morte, avesse addirittura rinnegato l’imperatore per riconciliarsi con il pontefice. Se, dopo la sua morte egli sia stato perdonato o meno dal pontefice, non ci è dato saperlo. Sappiamo però che negli anni successivi sia Arezzo sia Città di Castello continuarono a trovarsi sotto interdetto, essendo entrambe aderenti allo scisma dell’antipapa Niccolò V (eletto nel 1328 dall’imperatore Ludovico dichiarando Giovanni XXII decaduto). Arezzo piombò nel caos: si aprì un grande scisma nella comunità dei fedeli visto che il vescovo Boso Ubertini non poteva ancora occupare il posto che gli spettava e Pier Saccone Tarlati, fratello di Guido, divenuto nuovo signore della città, aveva fatto ordinare dall’antipapa un certo fra’ Mansueto come nuovo vescovo della città. Nel frattempo la famiglia Tarlati lavorava anche alla costruzione del memoria post mortem di Guido esaltandolo come un abile politico, guerriero e vescovo che aveva contribuito alla grandezza della città. Il feretro era stato persino accolto in città con una solenne processione simile a quelle che si facevano quando si accoglieva un sovrano o le reliquie di un santo. È in questo clima che Pier Saccone commissionò il famoso cenotafio funebre realizzato nella cattedrale di Arezzo dagli scultori senesi Agnolo di Ventura e Agostino Giovanni (1330).

Certamente gli anni Trenta del Trecento furono un momento storico ben diverso da quello precedente visto che adesso tutti avvertivano l’urgenza di una riconciliazione tra il pontefice e i Tarlati.
I fatti parlavano chiaro: l’imperatore Ludovico aveva lasciato per sempre l’Italia per fare ritorno in Germania (aprile 1329-febbraio 1330); l’antipapa, rimasto isolato a Pisa e impossibilitato a seguire l’imperatore, fu costretto dai pisani alla resa e a raggiungere Avignone per chiedere umilmente perdono al papa; le città ghibelline che avevano parteggiato per l’Impero e l’antipapa, tra queste Arezzo, avviarono le trattative di pace (fine del 1330 – inizio 1331). La firma ufficiale di un patto siglato tra Papato e Tarlati giunse solo nel settembre 1331 e il mese successivo la città, per la gioia dei fedeli, fu liberata dall’interdetto. La sede episcopale aretina restava ancora vacante, riaccendendo la rivalità tra Ubertini e Tarlati ma, dopo l’ennesima minaccia di scomunica, per entrambe le parti lo scontro cessò. L’ultimo atto di Pier Saccone fu la cessione della signoria sulla città di Arezzo alla vicina Firenze, cosa che portò sì ad una risoluzione della questione dell’episcopato ma a sfavore di Boso che avrebbe dovuto ottenere una cattedra diversa da quella aretina destinata invece a Bartolomeo Tarlati, vescovo dimissionario di Città di Castello. Pier Saccone sperava così di spianare la strada per un suo probabile ritorno futuro ma aveva fatto male i conti perché i fiorentini non rispettarono i patti: Boso Ubertini fu piazzato a governare effettivamente la diocesi aretina, mentre Bartolomeo si dovette accontentare della carica di arciprete della Pieve urbana.

Per ulteriori approfondimenti potete consultare:
– P. LICCIARDELLO, Un vescovo contro il papato: il conflitto tra Guido Tarlati e Giovanni XXII, Arezzo, Società Storica aretina, 2015

Per eventuali chiarimenti resto a vostra disposizione:
email giulia.procelli19@gmail.com

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